Alitalia tornerà ad essere dello stato. La prospettiva sempre più concreta sotto il governo penta-leghista. E i costi a carico dei contribuenti non finiscono mai.

Il ministro dello Sviluppo, Luigi Di Maio, promette di fare il possibile per dare un futuro ad Alitalia, mentre il collega alle Infrastrutture, Danino Toninelli, assicura che la compagnia aerea tornerà ad essere “di bandiera con il 51% in capo all’Italia”. Manca la conferma esplicita, ma pare proprio che Alitalia sia destinata ad essere ri-nazionalizzata. In realtà, anche il governo Gentiloni, con Carlo Calenda allo Sviluppo a seguire il dossier, aveva preso in considerazione una simile prospettiva, se è vero che in 15 mesi dall’avvio del commissariamento non si è stati capaci di rivenderla a qualche pretendente. A dire il vero, un’offerta concreta era arrivata dalla tedesca Lufthansa, ma contemplava tagli al personale piuttosto pesanti e né Calenda prima, né successivamente Di Maio se la sono sentiti di assumersi la responsabilità di ripercussioni sociali dolorose. Ed ecco tornare l’ipotesi di appioppare nuovamente allo stato una compagnia, che solo 10 anni fa veniva privatizzata per impedire che continuasse a gravare sulle tasche dei contribuenti. Era la famosa cordata dei “capitani coraggiosi”, senonché da allora le perdite non hanno fatto che continuare ad essere sostenute dagli italiani per complessivi 10 miliardi di euro. Misteri di una privatizzazione “all’italiana”.

Alitalia non inverte la rotta, brucia 15 euro al secondo e il contribuente italiano paga

Alitalia gode di un prestito-ponte, erogato ad interessi salati dal Tesoro nell’aprile dello scorso anno e che avrebbe dovuto essere restituito nell’ottobre successivo. Alla scadenza, però, è stato rinnovato per un altro anno ed elevato da 600 a 900 milioni. La Commissione europea pretende che venga restituito subito dopo l’estate, giudicando incompatibile un prestito emergenziale con il suo rinnovo indefinito, il quale puzzerebbe così di aiuto di stato, pratica vietata dalla normativa europea in difesa della concorrenza. Ce la farà mai Alitalia a rimborsare allo stato il maxi-prestito? Allo stato attuale, consideriamolo pure erogato a fondo perduto. I numeri di questo primo anno abbondante di gestione commissariale sono tragici. Perdite cumulate per oltre 400 milioni di euro, di cui 189 milioni solo nel primo trimestre e altri 15-40 milioni stimati già per il secondo trimestre, quello che teoricamente dovrebbe esitare risultati positivi, data l’alta stagione.

Di fatto, la compagnia perde la bellezza di oltre un milione di euro al giorno. Nel primo trimestre, a fronte di 100 euro di ricavi, i costi sono stati pari a 128 euro, per cui l’Ebitda ha chiuso negativamente per il 28%. Non tutto sembra nero: nel secondo trimestre, i ricavi sono cresciuti su base annua del 7,3%, i passeggeri dell’1,7% e quelli che hanno volato a lungo raggio dell’11,4%. Tuttavia, questi numeri oggi come oggi lasciano prevedere solo un aggravio delle perdite, visto che Alitalia più vola e più va in rosso. Allungare la media del volato sembra una strategia vincente, ma solo se la compagnia lo fa in condizioni sane, altrimenti equivale solamente ad acuire i costi più di quanto non riesca ad accrescere i ricavi.

Altra batosta in arrivo per il contribuente

E con il prezzo del petrolio in aumento, dopo l’estate rischia una batosta, indipendentemente da tutto il resto. Ironia della sorte, i commissari insediatisi nell’aprile dello scorso anno avevano trovato un “buco” milionario nei conti aziendali per la stipula di contratti di copertura contro il rischio di un rialzo delle quotazioni petrolifere negli anni passati, mentre era accaduto che questi fossero crollati e che la compagnia avesse continuato a pagare il carburante a prezzi ben più alti di quelli di mercato. Adesso, mentre il petrolio oscilla tra 70 e 80 dollari al barile e il cambio euro-dollaro arretra di oltre il 7% da febbraio, Alitalia si ritrova scoperta. Insomma, comunque vadano le cose, non gliene va bene una.

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Tornando al prestito-ponte, i dati dimostrerebbero che non sarebbe stato ancora utilizzato, se non in parte. La realtà è ben diversa, perché le valutazioni di cassa vanno separate da quelle economiche. La compagnia incassa dalla vendita dei biglietti prima e paga i fornitori molto dopo. Temporaneamente, quindi, si trova a gestire liquidità superiore al suo effettivo fabbisogno, ma quando i conti dovranno essere saldati, le casse aziendali si prosciugheranno ed ecco che per allora dovrà essere utilizzato il prestito-ponte per intero, sempre che basti. Dunque, come contribuenti rischiamo di accollarci altri 900 milioni che non ci verranno mai restituiti, i costi sociali derivanti dai tagli al personale tramite la generosa politica della cassa integrazione con assegni da nababbi e al contempo di sobbarcarci le future criticità aziendali, nonché l’iniezione di liquidità indispensabile per dare seguito alla continuità aziendale nel caso di ri-nazionalizzazione.

Formalmente, Alitalia verrebbe caricata addosso alla Cassa depositi e prestiti, nonostante Giuseppe Guzzetti, a capo delle Fondazioni bancarie azioniste abbia messo le mani avanti nei mesi scorsi, ricordando a Lega e 5 Stelle che l’ente controllato dal Tesoro non può investire per statuto in attività in perdita, dato che esso attinge ai risparmi delle famiglie, tramite Poste Italiane. Appello destinato a rimanere inascoltato. Cambiano i governi, non la voglia della politica di gestire pezzi di industria italiana. Alitalia andrebbe venduta all’offerente con il piano industriale migliore, lasciando semmai che lo stato ponga rimedio al costo sociale dell’operazione. L’alternativa reale sarebbe la chiusura tout court. La nazionalizzazione appare un piano fallimentare in partenza. E a rimetterci saremo ancora una volta tutti noi italiani, costretti da anni a pagare il biglietto ad Alitalia anche quando non voliamo.

Credits: ©investireoggi.it

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