Gli effetti del COVID-19 sulle obbligazioni contrattuali alla luce degli artt. 1256 e 1467 del Codice civile

La recente diffusione del Coronavirus COVID-19 sul territorio nazionale rischia di colpire – come già sta accadendo – diversi operatori economici in settori fondamentali della “vita aziendale”, dalla produzione alla c.d. supply chain in generale, dalla logistica alla gestione del prodotto.

Tale impatto, da un punto di vista strettamente giuridico, potrebbe comportare un possibile aumento del rischio di “inadempimento contrattuale” da parte di quelle ditte che – in buona fede – hanno assunto particolari obbligazioni commerciali, nell’ambito del territorio nazionale e rette dalla legge italiana, sulle quali l’epidemia sembrerebbe avere effetti sospensivi se non addirittura estintivi[.

COVID-19 e inadempimento contrattuale: l’art. 1218 c.c.

Sul punto, giova evidenziare che l’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., è costituito dalla mancata esecuzione di una prestazione qualora sia carente, da parte, dell’obbligato, l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, per la realizzazione dell’interesse del creditore, ciò nel presupposto che la prestazione sia soggettivamente possibile[. In buona sostanza, la difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza.

Ed invero, il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto – espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 della Costituzione – impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di «agire in modo da preservare gli interessi dell’altra»[ e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali.

Ciò brevemente detto, al fine di esonerarsi dalle conseguenze dell’inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte, il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da “causa a sé non imputabile” la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che «da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo»[.

In sintesi, dunque, l’art. 1218 c.c. è strutturato in modo da porre a carico del debitore, per il solo fatto dell’inadempimento, una presunzione di colpaiuris tantum, superabile mediante la prova dello specifico inadempimento che abbia reso impossibile la prestazione o almeno la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell’impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore.

L’art. 1256 c.c.: impossibilità della prestazione e il “factum principis”

In materia di inadempimento contrattuale, non può non rilevarsi che, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa “impossibile”; se tale impossibilità è solo temporanea, inoltre, il debitore, nelle more della stessa, non è responsabile del ritardo nell’adempimento[.

La liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione, dunque, può verificarsi – ai sensi dell’art. 1256 c.c. – solo se ed in quanto concorrano l’elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sé considerata, e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione[.

Tra le cause invocabili ai fini della richiamata “impossibilità della prestazione”, rientrano – per quanto qui di interesse – gli ordini o i divieti sopravvenuti dell’autorità amministrativa c.d. “factum principis”: si tratta, in concreto, di provvedimenti legislativi o amministrativi, dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato[. In sintesi, trattasi di circostanza che funge da esimente della responsabilità del debitore a prescindere dalle previsioni contrattuali in essere.

Si badi, a tal proposito, che – secondo la migliore giurisprudenza – l’impossibilità nell’adempimento contrattuale non può essere invocata qualora il factum principis sia «ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione» ovvero «rispetto al quale non abbia sperimentato tutte le possibilità che gli si offrivano per vincere o rimuovere la resistenza della pubblica amministrazione»[.

Nell’ipotesi, invece, di impossibilità temporanea, l’art. 1256 c.c. si limita ad escludere, finché detta impossibilità perdura, la responsabilità del debitore per il ritardo nell’adempimento. Pertanto, in via generale, il debitore, cessata la suddetta impossibilità, deve sempre eseguire la prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che può, eventualmente, far valere sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.

L’art. 1467 c.c.: gli “avvenimenti straordinari ed imprevedibili”

L’impossibilità sopravvenuta va ben distinta dall’eccessiva onerosità sopravvenuta. Quest’ultima, in estrema sintesi, non impedisce la prestazione, ma la rende più “onerosa”, consentendo al debitore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione della prestazione.

L’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per poter determinare, ai sensi dell’art. 1467 c.c., la risoluzione del contratto richiede, tuttavia, due requisiti: (I) un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto e (II) la riconducibilità della eccessiva onerosità ad “eventi straordinari ed imprevedibili”, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale. In particolare, il carattere della “straordinarietà” deve essere valutato in modo oggettivo, dovendosi qualificare in base alla frequenza dell’evento, alle dimensioni, all’intensità ecc.; l’“imprevedibilità” ha natura, invece, soggettiva, «facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza»[.

Per configurare l’eccessiva onerosità sopravvenuta, dunque, è necessario che gli avvenimenti straordinari ed imprevedibili[ determinino un aggravio patrimoniale che alteri, sostanzialmente, l’originario rapporto di equivalenza, incidendo sul valore di una prestazione rispetto all’altra, ovvero facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione.

Va da sé, dunque, che la domanda di risoluzione di un contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere corredata dalla rigorosa prova del fatto la cui sopravvenienza abbia «determinato una sostanziale alterazione delle condizioni del negozio originariamente convenuto tra le parti e della riconducibilità di tale alterazione a circostanze assolutamente imprevedibili»[.

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Alla luce del complesso quadro fattuale, non è semplice stabilire se il Coronavirus – o le misure adottate dalle autorità – possa costituire valida causa di impossibilità o di sopravvenuta onerosità delle prestazioni contrattuali assunte dalle imprese. Gli effetti giuridici del COVID-19 sui negozi stipulati dalle ditte nazionali, in sintesi, dovranno essere scrupolosamente valutati ed esaminati caso per caso, tenendo conto di una pluralità di fattori quali, a titolo meramente esemplificativo, l’applicabilità della legge italiana alla fattispecie contrattuale, i fatti portati a sostegno del ritardo e/o dell’inadempimento contrattuale, l’incidenza specifica degli stessi sulla prestazione, l’assenza di soluzioni alternative per l’adempimento, la portata del testo contrattuale.

Credits:©altalex.com

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